via Pinterest
Premessa: mi appresto a parlare di scemenze. Di cose futili. Di cose sciocche, stupide, not that deep. Cose che, quando le butto fuori dalla mia testa, diventano molto più piccole di quanto non mi sembrassero prima.
Peraltro, ogni volta che m’imbatto in un pezzo che ambisce al nobile scopo di criticare i social media e convincermi a disconnettermi, mi viene l’orticaria. Penso: ma chi sei tu, miserabile sconosciutə, per permetterti di dirmi cosa dovrei o non dovrei fare? Di avere l’ardire di consigliarmi cosa potrebbe essermi utile? Sciò, sciò, via dal mio spazio.
Dunque, questo pezzo vuol essere un resoconto personale che in più parti potrebbe apparentemente avere aspirazioni persuasive, ma solo perché sotto sotto non riesco a non provare a convincere chi mi circonda che quello che faccio io è la cosa migliore per tuttə e che se tuttə faceste come dico io vivremmo in un paradiso perfetto (eheh, si scherza… unless 😳).
Ma sto divagando, veniamo alla questione.
Come avrà capito chi ha letto il primo pezzo di questo spazio (blog? 🥺), nella mia scala di valori l’apparenza occupa un posto molto alto. Al tempo stesso, però, da qualche parte dentro di me ci dev’essere un nucleo severo e indefesso che odia le cose vuote, dunque con l’apparenza pura e semplice ho sempre avuto un rapporto conflittuale (ma chi non lo ha).
Ho sempre desiderato con ardore l’aderenza assoluta tra ciò che mostravo all’esterno e ciò che provavo all’interno e ho sempre cercato la stessa cosa negli altri. È lapalissiano, lo so, ma lo dico ugualmente: questa cosa non si adatta molto bene ai meccanismi social, dove allo stato attuale delle cose ci si deve vendere mettendo in vetrina solo il meglio e allontanando le cose meno piacevoli e meno utili allo scopo.
Ho un account Instagram da quando la piattaforma esiste (oso dire… before-it-was-cool?) e forse avrei potuto capire prima che la deriva iperproduttiva e turbocapitalista di quello spazio meraviglioso originariamente destinato alla condivisione di foto brutte, fuori fuoco e ipersaturate mi stava facendo male. Ma che posso dire se non che questa relazione è stata come una qualsiasi relazione tossica che inizia con le premesse migliori e pian piano diventa una matassa di problemi impossibile da sbrogliare?
Instagram era un giovane di belle speranze che mi ha fatto tante promesse e mi ha fatto credere di essere importante. Mi ha detto che non serviva che piacessi a tutti, bastava che fossi me stessa. Poi è diventato un partner violento e insoddisfatto che chiedeva sempre di più, sempre più in fretta, che mi denigrava e mi ricordava in ogni momento che non ero abbastanza. E io, che sono una donna scostante, volubile, incapace di stare al passo con le mode, che si trova a disagio nella fretta e che non sa vendersi, mi sono disintegrata sotto la pressione.
Di FOMO si è parlato in ogni modo, quindi non starò qui a fare gli spiegoni, ma non esiste altro modo per descrivere quello che si prova di fronte alla fyp di Instagram.
A me che, checché se ne dica, piace stare in mezzo alla gente e farmi vedere, lo scrollare continuo faceva due effetti:
entrare in una meravigliosa spirale che suona nella mia testa più o meno così: “che bel contenuto che ha fatto questa persona, potrei farlo anch’io, potrei adattarlo a quello di cui mi occupo, potrei comprare un treppiedi, una ring light, un microfono… potrei scrivere un piccolo copione… registrare… editare… pubblicare… potrei, potrei, potrei… ma non ho una lira, non ho tempo, non sono in grado. Perché non sono in grado? Oddio, come faccio a stare al passo? Non ce la faccio, perché non ce la faccio? Cos’ho in meno di questa persona? Posso imparare… ma quando? Come? Dovrei fare un corso? Dovrei cercare un tutorial? No, non avrebbe senso, non sarebbe genuino… Devo farmi vedere per come sono, ma poi l’algoritmo mi penalizza, devo fare le cose in un certo modo. No, non ce la faccio. Sì invece, lo faccio adesso. No, domani. Oppure no?”;
accanirmi nei confronti di chi fa quello che
volevopensavo di dover fare anch’io e riempirmi di veleno nei loro confronti e anche nei confronti di me stessa.
Il risultato, in entrambi i casi, era il medesimo: una totale e triste inattività condita di autocommiserazione, senso di colpa e odio.
Un mese fa ho disinstallato Instagram con l’intenzione di fare semplicemente una pausa. L’ho presa come una sfida, esattamente nello stesso modo in cui ho smesso di fumare. Cioè: se oggi non ho fumato neanche una sigaretta, posso arrivare fino a domani senza fumare neanche una sigaretta. Se domani non fumerò neanche una sigaretta, potrò arrivare a dopodomani senza fumare neanche una sigaretta. A questo punto non fumo da un anno (disclaimer: non è la prima volta che provo a smettere, quindi non assicuro che non ricomincerò, ma sono ottimista). Nello stesso modo ho continuato a ripetermi “se oggi sono riuscita a non entrare su Instagram, posso arrivare a domani senza entrare su Instagram”. Ed eccoci qua, un mese dopo.
È stato più difficile che smettere di fumare, lo dico sinceramente, ma è stato enormemente liberatorio. Dopo undici (11!) anni con questa creatura costantemente al fianco mi sembrava impensabile passare del tempo senza. Non ironicamente nella mia testa c’era il pensiero fisso che non avrei potuto vivere una vita normale senza Instagram, che sarei stata tagliata fuori da tutto, che non avrei più saputo chi faceva cosa e dove, che non avrei potuto conoscere notizie interessanti o gossip succulenti, che non avrei potuto più sentire le persone lontane che ho conosciuto in questi anni. In poche parole, avevo paura che avrei smesso di esistere. Suona nefasto, lo so, ma è la descrizione esatta di quello che ho provato.
Mi sono spostata su Substack (lo avevo inaugurato mesi fa, ma adesso ho iniziato a frequentarlo con assiduità) e qualcunə potrebbe obiettare che ho semplicemente sostituito un social con un altro, ma il paragone non regge neanche lontanamente. Non apro Substack con la stessa frequenza ossessiva e automatica con cui aprivo Instagram e l’homepage di questa piattaforma non mi bombarda con un susseguirsi di immagini disorganiche che mi anestetizzano dalla realtà. Sì, lo ammetto, provo invidia delle persone che raggiungono migliaia di lettori e che ottengono centinaia di like, ma nonostante Substack mi proponga i suoi “strumenti per ottenere più lettori” non mi sento denigrata o umiliata dalla piattaforma e da chi la abita se a leggermi sono solo i miei dieci amichetti della piazzetta (quando va bene).
Substack mi ha anche aiutata a ricordarmi una cosa: io amo scrivere e amo leggere. Ho sempre letto, tanto, e ho sempre scritto, tantissimo, e Instagram ha provato - da bravo partner tossico - a cambiarmi. Ha provato a convincermi che dovevo cambiare radicalmente le modalità a me più congeniali di parlare con chi mi circonda. È stato così bravo che per un po’ è riuscito a convincermi e nel farlo mi ha sottratto la capacità di prestare attenzione, la curiosità, la noia. Maledetto smargiasso, persino la noia!
Ma non c’è stato solo Substack, naturalmente. C’è stata la possibilità, in generale, di ritrovarmi a scegliere cosa fare nei momenti morti. La possibilità di pensare a cosa avrei fatto dopo una lunga giornata di lavoro al posto del doom scrolling. La possibilità - dico una cosa forte! - di stare nel presente.
Ho letto di recente questa considerazione [qui]:
I learned early that intelligence made people uncomfortable. That being curious wasn’t cute if it made others feel small. That speaking up too much, knowing too much, caring too much—especially as a girl—could make you annoying. Unlikable. That being smart could be a liability. Still, for a long time despite that, I never cared because my mind felt electric. Alive. Like there was something sharp and sparkling underneath my skin that made me me.
L’autrice racconta che, a poco a poco, il suo cervello si è atrofizzato fino al punto in cui lei non si è più sentita sé stessa. Anch’io mi sono sentita così - e mi sento ancora così, perché la strada per la deprogrammazione è lunga.
Come sempre quando arrivo alla fine di un pezzo non trovo mai le parole per concluderlo degnamente. Sento la pressione di dover trarre delle conclusioni intelligenti e utili, ma riesco almeno a riconoscere in questo un bisogno imposto e non naturale. Sento, al tempo stesso e per fortuna, la necessità di disimparare le cose che non ho scelto di imparare.
Per dirne una, sto disimparando a guardare la realtà con un filtro che la renda più piacevole, ma al contempo falsa:








