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Sono cresciuta con una madre che mi ripeteva spesso questo mantra: se bella vuoi apparire, un po’ devi soffrire. Probabilmente si riferiva a qualcosa di piuttosto innocente come sopportare il dolore della ceretta o il mal di piedi quando s’indossano i tacchi, ma la mia interpretazione è stata diversa.
La retorica della sofferenza mi è stata inculcata a forza e neanche adesso, dopo anni di terapia, assemblee femministe, decostruzione e autocoscienza, mi rendo conto della reale entità del danno.
La prima volta che mi sono accorta di questo corto circuito è stato proprio durante una seduta di psicoterapia. Mi lamentavo del fatto che stavo ingrassando, che il mio corpo mi appesantiva, che lo trovavo quasi repellente. Dopo un po’, scherzando, mi sono lasciata andare a una considerazione che ha del tragico: “per dimagrire dovrei lasciarmi”. La mia terapeuta - che ha quella fastidiosa abitudine tipica dei professionisti della salute mentale di non ridere delle battute dei pazienti ma di usarle per spingerli ad affrontare i traumi che queste nascondono - mi ha domandato: “come mai dici così?”
Ed ecco che mi sono trovata di fronte all’amara consapevolezza che nella mia testa l’equazione è più o meno questa: quando sto male, dimagrisco; se dimagrisco, sono più bella; quindi, quando soffro, sono più bella.
Questa foto è, ai miei occhi, una delle foto più belle che mi siano state mai scattate. Mi vedo bellissima. Magra. Luminosa. Questa foto è stata scattata qualche settimana dopo una delle cose peggiori che mi fossero capitate fino a quel momento: ero stata vittima di violenza fisica e psicologica da parte di un ragazzo più grande con il quale avevo iniziato una relazione qualche mese prima ed ero ancora vittima di stalking da parte sua. Perdipiù, visto che probabilmente aveva in casa il manuale del narcisista, aveva fatto in modo di allontanarmi dalle mie più care amiche e di isolarmi da eventuali amicizie che avrei potuto iniziare nella sua cerchia di conoscenze. Ero sola e mi sentivo colpevole, anzi, sentivo di meritarmi quella violenza. Ricordo bene, dopo averlo faticosamente lasciato, di essere andata a una festa insieme a un’amica (l’unica che mi era rimasta, probabilmente mossa dalla compassione e non solo dall’affetto) e, dopo essermi ubriacata fino a non essere più in grado di reggermi in piedi, di averle detto una cosa di questo tenore:
“Vorrei che G. fosse qui così mi punirebbe per la mia stupidità.”
Nel corso di quei mesi ho perso 10 chili e ho iniziato ad attirare l’attenzione di molti uomini. E, visto che i miei genitori mi hanno insegnato che essere bella e sposarmi dovevano essere la mia massima aspirazione, mi sono crogiolata in quelle attenzioni e ancora oggi, a distanza di 15 anni, ripenso a quel periodo con un misto di sognante nostalgia e feroce ripugnanza.
Otto anni dopo è successo di nuovo. Questa volta, però, con il bagaglio emotivo ed esperienziale di una giovane donna più consapevole e non più con la freschezza e l’ingenuità di un’adolescente, oltre ai chili ho perso la gioia e la fiducia che avevo in me stessa e nel futuro. Però, tutto sommato, che importava? Almeno ero di nuovo bella e i complimenti sul mio dimagrimento potevano essermi di una qualche consolazione. Poco importava che avessi smesso di mangiare, che bevessi tutti giorni dalla mattina alla sera e fumassi fino all’annichilimento della coscienza1, che passassi le mie giornate a consumare qualsiasi porcata Netflix decidesse di produrre. Se quando uscivo attiravo le attenzioni degli altri, uomini principalmente, allora stavo facendo la cosa giusta.
Negli anni a seguire, e soprattutto dopo quella seduta psicoterapeutica, questi pensieri sono stati il carburante che ha messo in moto le riflessioni che sto scrivendo qui. E oggi quando ogni giorno mi guardo allo specchio devo sforzarmi di ripetere che il mio valore non si misura in base alla circonferenza del mio addome. Che la mia intelligenza, le mie idee e i miei talenti non valgono meno del mio aspetto. È una lotta costante ed estenuante perché questo sforzo è innaturale. Sono infatti naturalmente portata a denigrare il mio riflesso: ho troppe rughe, troppa cellulite, la pancia troppo prominente, il seno troppo cadente, le mie braccia sono troppo flaccide, il mio viso troppo rotondo, il mio culo troppo grosso. Mi sento in difetto nei confronti del mio compagno perché non sono un bel trofeo. Mi sento inadeguata quando osservo i corpi delle mie sorelle e delle mie amiche, quasi tutte più magre di me. Mi sento in colpa quando non trovo le taglie giuste per il mio corpo e mi strizzo dentro abiti troppo stretti, che mi feriscono, mi lasciano segni e marchi sulla pelle, piuttosto che cercare vestiti più adatti.
Ma quel che è peggio è che vivo la serenità di una vita stabile e ricca, di un amore sincero, di un affetto familiare incondizionato con colpevolezza e, anche se non voglio ammetterlo, anche se vorrei poter dire che gli anni di terapia, assemblee femministe, decostruzione e autocoscienza sono serviti a qualcosa, devo essere onesta con me stessa e accettare che una parte di me sta cercando un modo per farmi male, perché è convinta che sia l’unico modo per ritrovare la bellezza che credo di aver perduto.
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In terapia (questa faccenda della terapia tornerà spesso su questi schermi, fateci l’abitudine) ho chiesto varie volte alla mia dottoressa come fosse possibile aver vissuto due relazioni violente estremamente simili tra loro (come lo sono tutte le relazioni violente, peraltro) e non essermi accorta, la seconda volta, che stavo vivendo le stesse cose che mi avevano già distrutta in precedenza. Manco a dirlo, la risposta non c’è. Al massimo delle teorie. Abbiamo parlato della comodità del trauma (parole mie, non sarei in grado di ripetere con precisione e dovizia i termini che ha usato lei), della facilità che comporta ritrovarsi negli stessi pattern piuttosto che rompere il ciclo e imparare nuove abitudini. Mi chiedo a questo punto se l’associazione che si è creata nella mia testa e anche nella mia memoria corporea tra sofferenza e bellezza non sia stata una delle componenti della ricerca, per quanto inconsapevole, del dolore.
Sono certa che mia madre mi abbia ripetuto quel mantra perché qualcuno a sua volta l’ha ripetuto a lei. Non gliene faccio una colpa. So che le hanno insegnato che il suo valore si misurava in base alla sua bellezza e al suo decoro. Non le hanno mai permesso di sporcarsi, di urlare, di sfidare le sue convinzioni, di confrontarsi con un giudizio che riguardasse qualcosa di diverso dal suo corpo o dai suoi ruoli di madre e moglie; tutte cose che io ho avuto la fortuna di fare. Avrei voluto imparare prima a usare gli strumenti necessari per essere più paziente e comprensiva nei miei stessi confronti, oltre che nei suoi. Adesso è difficile mostrare tenerezza, è innaturale come lo sforzo di cui parlavo più su, ma è anche radicalmente necessario.
Voglio smettere di avere paura di essere brutta, sgradevole, scomposta, grassa, ma al tempo stesso voglio allenare la mia tolleranza quando cedo alla vanità. Voglio smettere di vivere nella vergogna del mio corpo. Voglio essere libera di rimpiangere la mia gioventù senza che questo renda la percezione del mio aspetto attuale intollerabile e odiosa. Voglio guardare le mie foto e ricordarmi di tutto, non solo del mio peso. Voglio pensare a me stessa quando penso al mio corpo, non a un oggetto esterno che non mi appartiene. Voglio pensare a ciò che può fare e non solo a come può essere. Dove può portarmi? Cosa può insegnarmi? Cosa ricorda? Cosa vuole dimenticare?
Sia chiaro che non ho niente contro il fumo ☘️